Che pensa l’intelligenza artificiale del jazz?

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I ricercatori hanno addestrato una rete neurale con il jazz, ma ne è venuto fuori un risultato terrificante

Una coppia di musicisti si è trasformata in una coppia di programmatori per capire che cosa avrebbe fatto una rete neurale se si fosse trovata di fronte al jazz e così ha usato un disco di John Coltrane per addestrarla.
Il risultato è interessante perché ci fa capire, in maniera provocatoria, che cosa può succedere quando un algoritmo decostruisce un pezzo di arte generata dall’uomo e poi lo riassembla in qualcosa che un essere umano non creerebbe mai.

La musica prodotta dall’algoritmo, che viene trasmessa in streaming, in diretta per 24 ore al giorno, è sorprendente: se si prova ad ascoltarla, per alcuni minuti produrrà davvero una sorta di free jazz dal suono plausibile, ma a un certo punto, arriveranno strani suoni, tamburi, rumori, trilli, suoni di corni cacofonici e inascoltabili. Una cosa terrificante.
Se dovessimo pensare che questo ci dice come l’intelligenza artificiale consideri il jazz, il jazz ne uscirebbe davvero malissimo. D’altronde, sappiamo ancora molto poco degli sviluppi futuri sull’applicazione di questi algoritmi e di come saranno gli ibridi umani.

I responsabili del progetto si chiamano Dadabots e sono nati da una collaborazione tra i programmatori CJ Carr e Zack Zukowski, che si sono già occupati in passato di esprimenti di questo genere: nel 2017 avevano generato un intero album black metal  usando l’intelligenza artificiale e, all’inizio di quest’anno, hanno creato un algoritmo che trasmette death metal sempre secondo gli stessi dettami; in passato avevano anche sperimentato altri generi, dal pop anni ’60 al punk rock.

Insomma, questo jazz è qualcosa di estremamente diverso da quello che abbiamo mai sentito prima. La prossima volta che qualcuno ci accuserà di non capire questo genere musicale potremo sempre rispondere: «Beh, se è per questo non lo capiscono nemmeno le intelligenze artificiali!».

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