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COVID19: le parole toccanti di un’infermiera e di un ingegnere in prima linea nella lotta al virus

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Oggi vogliamo dare voce alle testimonianze di una infermiera e di un ingegnere, per vedere attraverso i loro occhi la realtà di chi è in trincea e ricordarci di non abbassare la guardia.

La voce di un’infermiera di Volvera era che vive sulla propria pelle tutta la drammaticità di una malattia che non isola solo chi sta bene ma anche, e soprattutto, coloro che, gravemente malati, rischiano di morire senza il conforto dei propri cari; e la testimonianza, stupita, di un ingegnere che, lavorando senza sosta, ha partecipato alla costruzione del reparto di terapia intensiva nella Fiera di Milano.

Storie di vita preziose, che ci permettono, non visti, di vedere con gli occhi di chi, in prima linea nella guerra al COVID 19, vive personalmente con forza tutta la drammaticità di ogni istante, e, pur lavorando senza tregua, trova il tempo per ricordarci di non abbassare la guardia, perché ciò che ognuno di noi può fare è rompere la catena di trasmissione del virus restando a casa.

LA TESTIMONIANZA DELL’INFERMIERA

Riportiamo integralmente la drammatica lettera che un’infermiera residente a Volvera e che lavora all’ospedale San Luigi di Orbassano ha inviato al sindaco del suo paese, Ivan Marusich, da lui pubblicata su Facebook.

“Buonasera sig. Sindaco,

lavoro in ospedale, le scrivo perché, da cittadina volverese vorrei descriverle una giornata tipo. Una come tante, in questo periodo. Ma non vorrei descriverle quello che stanno passando i media: numeri, statistiche, decreti e divieti. Vorrei farlo visto dal lato del paziente Covid positivo e degli operatori. Il Covid è molto più che un virus subdolo.

Siamo un paese che sa solo lamentarsi per qualsiasi cosa, mai contenti di nulla. Sembra che la quarantena sia un castigo anziché una protezione per ognuno di noi. Se lo riterrà opportuno, potrà condividerlo lei, per sensibilizzare.

Che bello essere chiamati angeli, ma chissà se poi lo siamo davvero.

È un sabato mattina di una settimana di allerta Covid-19. Finalmente un giorno di riposo dopo tanto lavoro. Finalmente puoi dedicarti alla famiglia. Per te la quarantena non esiste, non esiste il divieto ad uscire e non è mai esistito. Tu devi lavorare, sei preziosa dicono. E invece no, niente riposo. Arriva la chiamata. Si deve andare. C’è bisogno di coprire turni. Il lamento è d’obbligo, non vorresti, ma si fa. Mentre ti prepari, rifletti che marzo non è stato affatto clemente: turni di 12 ore, ferie annullate, riposi ma cosa sono i riposi?

Arrivi in ospedale, qualche figura nei corridoi, ma ancora troppa gente in giro. Arrivi al reparto critico, quello dove sono ricoverati i pazienti positivi. Tutto blindato, suoni. Ti apre la collega che è li da ieri sera. Stremata, viso segnato dalla mascherina e gli occhiali, prendi consegna e la congedi. Deve riposare. Suona un campanello. Ti sporgi alla camera interessata, chiedi il motivo della chiamata, rassicuri che presto entrerai, e vai a vestirti. La vestizione è lunga, ci si deve bardare molto bene e non si possono commettere errori di trascuratezza.

Entri dalla paziente, la conosci e la saluti. Ha un casco sulla testa, si chiama C-pap. Serve per respirare meglio, non ha molte speranze e il monitor al quale è collegata ne dà conferma. Ma la paziente è cosciente, lucida e orientata nel tempo e nello spazio, ma soprattutto sa che sta per morire. Lo sa, lo percepisce e lo sente. Parli un po’ con lei.

Non mangia da giorni. Questa mattina chiede la colazione. Ha un diabete non controllato e vuole due fette biscottate con la marmellata. Sarà certo il diabete il suo peggior nemico ora? E riferisci alla collega di passarteli.

Quello sguardo implorante ti uccide. Distogli ogni tanto gli occhi da lei per non morire dentro…

Mentre le sistemi i cavi dei parametri vitali, lei ti prende la mano… ”Amore, sei mamma?”. “Si, di due ragazzi”.

“Allora puoi capire cosa sto provando?”.

“Posso provare, ma se vuoi, puoi descrivermelo… ti ascolto”.

“Ho quattro figli e sono sempre stati tanto mammoni. Un rapporto bellissimo, anche perché gli ho fatto da madre e da padre, visto che sono rimasta vedova da giovane. Non ho paura di morire, non vorrei solo soffrire. Ma un giorno, uno dei miei figli è venuto a trovarmi e non lo hanno più fatto entrare… è stato obbligato, non una scelta. Non ho potuto vedere più i nipoti, le nuore nessuno. Io qui, loro a casa. Non ho potuto dir loro quanto bene gli voglio”.

“Ma chiamali al telefono e diglielo”.

“Si, ma non è la stessa cosa”.

“E vabbè, però ti sentono, ti parlano ed è già qualcosa, meglio di niente”.

“Li chiamo ogni giorno, li sento che stanno soffrendo perché non possono stare con me fino alla fine”.

Entra il medico, la visita e squilla il telefono, è uno dei figli. La paziente gli dice “c’è il medico, te lo passo”. Il medico descrive al figlio la situazione. È davvero critica. Alla signora viene detto che dovrà essere intubata presto e che non ha molto da vivere. Il figlio chiede di poterla vedere per un ultimo, breve saluto. Non è possibile. il Covid non decide su chi posarsi, si insinua su chiunque.

Il medico esce dalla stanza e la signora piange disperata. Mentre è ancora al telefono con il figlio, il figlio piange con lei. Lei ha sempre su di te quello sguardo implorante, come volesse chiederti di fare qualcosa e chiedi di passarle il telefono. La signora ha un telefono vecchio, non è anziana, ma nemmeno tecnologica, non puoi avvicinare il telefono all’orecchio, quindi non sai cosa ti risponde il figlio, ma quello sguardo ti ha trapanato e non sei soltanto un operatore, sei mamma, sei figlia.

Dici al figlio: “Radunatevi tutti e quattro, ma proteggetevi con le mascherine. Fatelo prima che potete e poi chiamate in video chiamata questo numero”.

E gli dai il tuo e vi farò vedere mamma. È poca cosa, ma almeno non sarà una cosa interrotta di netto, e la potrete vedere.

Gli dici che sarai li per altre dieci ore e di richiamare più volte se non rispondo subito. Non passa neanche un’ora e la collega dice che dalla borsa sta squillando il tuo telefono. Tu sei sempre vestita e sempre in quella stanza, non sei mai uscita e le chiedi di prendere il cellulare, metterlo in un sacchettino, disinfettarlo e passartelo.

Apri la video-chiamata e tutti e quattro i figli lì. La paziente non se lo aspettava ed è felice come una Pasqua e tu con lei. Si parlano un bel po’, si raccontano, si dicono ti amo e lei desatura spesso perché si sta affaticando, ma sai il destino nefasto, non te la senti di chiedere di chiudere. Già una volta sono stati obbligati a tagliare, ora vuoi che la decisione sia la loro.

La chiamata dura circa mezz’ora ed è come se un cerchio si fosse chiuso, quello che doveva essere è stato… lei aveva resistito solo per loro, per vederli, per salutarli. Hai il cuore in mille pezzi. Pensi a te e ai tuoi figli e comprendi tutto…ogni sua preoccupazione.

Ti prende la mano, ti dice grazie, veglierò su di te, per quello che hai fatto. E fai fatica a non piangere. La paziente si spegne. Decidi di uscire e lasciare ai colleghi il resto. E vedi che, come le procedure prevedono, la cospargono di disinfettante, la avvolgono in un lenzuolo e la portano in camera mortuaria. Sola…sola…i suoi effetti personali messi in triplice sacco nero andranno inceneriti.

È domenica mattina. L’agenzia di pompe funebri è venuta a prendere la salma. Uno solo dei figli presente, a debita distanza. Non l’ha più vista da quella video chiamata. Dà indicazioni all’incaricato e vanno via… la sua macchina svolta a destra, la salma va a sinistra…sola. Non ce la fai, quello è troppo. E se fino ad ora non avevi pianto, ora non ce la fai.

A casa apri Facebook. Lamentele ovunque. Vi hanno negato la libertà, il bimbo non può andare più al parco, il cane passeggia troppo in là da casa e non si trova più lievito. Quanta ignoranza, quanti pochi problemi ha la gente, ma su una cosa ancora siamo fortunati: a noi ci saranno state anche negate delle cose, dovremmo anche fare sacrifici, ma almeno noi abbiamo ancora la dignità, un diritto che il Covid-19 ti toglie, senza poterti lamentare. Un diario dalla prima linea, quella umana, del cuore.”

LA TESTIMONIANZA DI UN INGEGNERE CHE HA PARTECIPATO ALLA COSTRUZIONE DEL REPARTO DI TERAPIA INTENSIVA IN FIERA 

Perché l’emergenza, oltre al dolore, ci ha dimostrato che se uniti, con obiettivi comuni, tutto è possibile.

“Succedono cose incredibili: alla sera decidi una modifica, la mattina è già tutto fatto. Ieri ordini una TAC, domani vengono a installarla e in un giorno si preparano i locali dal nulla, con pareti piombate, climatizzato, gas medicinali, e tutto quello che serve.

Questi sono moduli di terapia veri con tutti i crismi per infettivi a contaminazione controllata e tutti i locali di supporto a una TAC e una RX sterilizzatrice. Con tutte le dotazioni di norma.

Vi assicuro che quello che sta succedendo in fiera non è normale, è straordinario, grazie a gente incredibile che non si ferma mai. Non si costruisce un ospedale da 250 posti di terapia intensiva in 15 gg e non sto parlando di 250 brandine messe in un palazzetto dello sport come in Spagna. Ci saranno 200 persone che lavorano 24h, tutte sfamate gratis da Cracco che cucina qui dall’inizio, e potrei andare avanti.

Questa è un’Italia fantastica che non avevo mai visto. Queste persone stanno facendo miracoli!”

 

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