Covid può alterare funzioni tiroide, esperti ‘controlliamola’

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Roma, 18 mag. (Adnkronos Salute) – Avere cura della propria tiroide anche alla luce dell’emergenza pandemia. “La malattia da Covid-19 può alterare la funzione tiroidea creando ulteriori problemi diagnostici e terapeutici”, ricorda in proposito Luca Chiovato, presidente dell’Associazione italiana della tiroide (Ait) e coordinatore e responsabile scientifico della ‘Settimana mondiale della tiroide 2021’, che si svolgerà dal 24 al 30 maggio dedicata proprio a ‘Tiroide e pandemia da Covid’. Un evento promosso dalle principali società scientifiche endocrinologiche, mediche e chirurgiche (info sulla pagina Facebook dedicata Settimana mondiale della tiroide e sul sito www.settimanamondialedellatiroide.it.)

“Con la pandemia è ancora più importante mantenere in buona salute la tiroide rivolgendosi al proprio medico senza trascurare alcun campanello di allarme – osserva Chiovato -. Questa ghiandola svolge importanti funzioni per il nostro organismo come la regolazione del metabolismo, il controllo del ritmo cardiaco, la forza muscolare e il corretto funzionamento del sistema nervoso centrale e periferico”.

La Settimana mondiale – ricorda una nota – ha l’obiettivo di dare risposta alle tante domande che le persone con una malattia tiroidea si fanno in questo periodo e individuare quali sono le patologie tiroidee che possono rendere il paziente più ‘fragile’ nei confronti della malattia da Sars-CoV-2. L’iniziativa è sostenuta con un contributo incondizionato da Ibsa Farmaceutici Italia, Merck Serono ed Eisai.

“Per i pazienti con morbo di Basedow, la pandemia ha rappresentato un’ulteriore difficoltà in un percorso già ad ostacoli. Il morbo di Basedow si manifesta con un eccesso di ormoni tiroidei e il processo infiammatorio che ne è la causa può estendersi anche all’orbita causando il quadro clinico comunemente noto come ‘esoftalmo’ – spiega Francesco Frasca, rappresentante della European Thyroid Association (Eta) – In questi casi bisogna fare molta attenzione anche alla vaccinazione anti-Covid perché la terapia tipica dell’orbitopatia Basedowiana, i cortisonici ad alte dosi per via endovenosa, può vanificare l’effetto del vaccino se questo è somministrato durante il ciclo terapeutico”.

“La cura dell’ipertiroidismo causato dal morbo di Basedow richiede poi controlli clinici frequenti per aggiustare la terapia che, durante le fasi più acute della pandemia, sono stati più difficili da attuare sia per l’impegno degli endocrinologi nell’emergenza Covid, sia per le difficoltà di accesso ai servizi ospedalieri – rimarca Frasca – Per assicurare la cura dei pazienti si è fatto ricorso alla telemedicina nelle sue varie forme e, talora, all’utilizzo di schemi terapeutici, come quello basato sulla contemporanea somministrazione di farmaci anti-tiroidei ad alta dose e tiroxina, che consentono controlli clinici meno ravvicinati”.

“Il paziente con orbitopatia di Basedow – spiega Emma Bernini, presidente dell’Associazione Basedowiani e Tiroidei – è un paziente molto fragile, spesso gravato da ritardi diagnostici e terapeutici a causa della complessità della sua malattia che richiede il supporto di un team medico multidisciplinare (endocrinologo, oculista, radiologo-radioterapista, chirurgo orbitario, chirurgo plastico). In questi pazienti, la maggior parte dei quali donne, il danno non è soltanto funzionale sino, nei casi più gravi, alla perdita della vista, ma anche estetico, a causa della sporgenza degli occhi e alla conseguente deformazioni dei tratti del volto. Ciò comporta una dolorosa perdita di identità che si aggiunge alle manifestazioni tipiche della malattia. Una volta controllato l’ipertiroidismo e il processo infiammatorio – ricorda – la chirurgia ‘ricostruttiva’ dello sguardo e del volto deve quindi essere considerata un irrinunciabile completamento della cura. È quindi auspicabile che il preannunciato potenziamento del Ssn porti alla creazione di questi team multidisciplinari in sempre più ospedali. La pandemia ci ha infatti insegnato come siano difficili i viaggi della speranza nei pochi centri specializzati spesso presenti in regioni lontane”.

“La pandemia da Covid-19 ha sollevato ulteriori quesiti in relazione al trattamento dei pazienti con patologia oncologica tiroidea, soprattutto nei casi di tumori più aggressivi o avanzati che richiedano farmaci di ultima generazione – afferma Franco Grimaldi, presidente Associazione medici endocrinologi (Ame) – e, al fine di ridurre il rischio di contagio nelle strutture ospedaliere, vengono raccomandati per questi pazienti percorsi di diagnosi e cura protetti. In particolare, nei pazienti con carcinoma tiroideo avanzato e in terapia con gli inibitori delle Tirosin-kinasi (Tki) bisogna considerare alcuni importanti aspetti: se questi vengono colpiti da malattia infettiva Covid-19 devono essere considerati pazienti fragili e con un maggior rischio di esiti negativi, compresa la possibilità che l’infezione possa aggravare ulteriormente gli effetti collaterali dei Tki. Questi pazienti inoltre richiedono un continuo monitoraggio clinico, biochimico e strumentale”, osserva.

“La tiroidite di Hashimoto, molto frequente soprattutto nelle donne, pur essendo di natura autoimmune, non è una malattia sistemica e non richiede per il suo trattamento farmaci immunosoppressori; quindi, non espone chi ne è affetto ad un più alto rischio di sviluppare una malattia grave da Covid-19 – continua Francesco Giorgino, presidente Società italiana di endocrinologia (Sie) – Fanno eccezione a questa regola i casi in cui la tiroidite di Hashimoto si associa a due malattie endocrine che più gravemente impegnano l’organismo e il cui trattamento è molto più complesso: il diabete mellito di tipo 1 e la malattia di Addison, che compromette un asse endocrino critico per la sopravvivenza in caso di malattie gravi intercorrenti come quella da Covid-19. Questi pazienti sono considerati veramente fragili e, giustamente, hanno una priorità per la vaccinazione utilizzando le formulazioni a Rna che assicurano una maggiore protezione”.

“Lo stesso dicasi per l’associazione con altre malattie autoimmuni sistemiche come il lupus – prosegue – Quindi, la buona notizia è che, salvo i casi associati a patologie autoimmuni più gravi o sistemiche, non sussiste alcun valido motivo per ritenere fragili nei confronti della malattia da Covid-19 i pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto, anche quando questi siano in terapia con tiroxina per curare il loro ipotiroidismo”.

“Rassicuranti sono i dati, ad ora disponibili, sulla popolazione pediatrica affetta da tireopatia come ipotiroidismo congenito o acquisito e ipertiroidismo. Non emerge infatti un maggior rischio di contrarre l’infezione da Sars-Cov2, né che questi pazienti possano avere una prognosi peggiore in caso di infezione”, afferma Maria Cristina Vigone, Segretario generale Società italiana di Endocrinologia e Diabetologia pediatrica (Siedp). “Però i pazienti con funzionalità tiroidea scompensata, soprattutto in caso di ipertiroidismo, pur non essendo più suscettibili all’infezione da Sars-Cov2, possono avere maggiori complicanze in caso di infezioni. Per questo motivo, in tutti i centri di endocrinologia pediatrica, è stato fatto un grande sforzo per garantire la continuità assistenziale con visite periodiche programmate o attivando modalità alternative come consulenze telefoniche, video-consulenze e servizi di telemedicina. Lo screening dell’ipotiroidismo congenito non ha subito interruzioni o ritardi, così come la cura dei neonati affetti da questa patologia”.

“La malattia da Covid-19 si è rivelata particolarmente aggressiva e con elevata mortalità nei pazienti anziani e soprattutto negli ultraottantenni”, precisa Fabio Monzani, rappresentante Società italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg). “Dati preliminari ottenuti da un registro nazionale elaborato sotto l’egida della Sigg documentano una prevalenza particolarmente elevata della sindrome del malato eutiroideo, superiore al 50% nei pazienti anziani ricoverati. La comparsa di questo quadro, pur rappresentando una difesa dell’organismo in caso di malattie gravi, ha un valore prognostico negativo perché si associa ad una maggiore mortalità”.

“La pandemia, che si sta protraendo da oltre un anno, ha ridotto il ricorso da parte dei pazienti ai programmi di prevenzione e ai controlli periodici sia per quanto riguarda le patologie tiroidee benigne sia, e questo è più preoccupante, quelle maligne”, avverte Celestino Pio Lombardi, presidente Società italiana unitaria di Endocrino Chirurgia, Siuec. “La paura di andare in ospedale per visite ed esami ambulatoriali, il contingentamento degli appuntamenti e, in molti casi, la temporanea sospensione dei servizi o la trasformazione dei reparti per ricoveri ‘Covid’, ha causato sia ritardi diagnostici, sia l’allungamento dei tempi per effettuare interventi di tiroidectomia, spesso necessari. Il rischio, in caso di noduli tiroidei tumorali – ricorda – è l’aumento di dimensioni che, non solo può peggiorare il successivo decorso, ma può rendere impossibile il ricorso alla chirurgia tiroidea mininvasiva e più conservativa, con conseguenze post-operatorie ed estetiche talvolta importanti. La nuova sfida è quindi ‘recuperare il tempo perduto’ intensificando l’attività dei centri di chirurgia endocrina”.

“La medicina nucleare interviene nelle malattie della tiroide non solo per la diagnosi, ma, soprattutto, per la terapia con iodio radioattivo dell’ipertiroidismo e dei tumori della tiroide, una volta trattati chirurgicamente”, ricorda Maria Cristina Marzola, consigliere Associazione italiana di Medicina nucleare (Aimn). “Da un’analisi eseguita dal gruppo Giovani di Aimn è emerso che, nel corso della pandemia, si è verificata una riduzione di tutte le prestazioni di medicina nucleare. Il 19% circa di questa perdita riguarda prestazioni terapeutiche, nel 50% e più dei casi rappresentate dalla terapia con iodio radioattivo per il carcinoma della tiroide. Questo è dipeso sia dalla riduzione degli interventi chirurgici sulla tiroide, sia dalla possibilità, condivisa anche in ambito internazionale, di posticipare di qualche mese la terapia con iodio radioattivo nei casi di carcinoma differenziato della tiroide a basso rischio. Contestualmente, i centri di Medicina Nucleare hanno innalzato i livelli di protezione e isolamento dei pazienti per evitare che chi avesse assunto lo iodio radioattivo a scopo terapeutico fosse infettato dal virus”.

“La qualità della relazione e della comunicazione tra medico e paziente è un fattore di grande importanza per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico e anche per il buon esito della cura”, sostiene Anna Maria Biancifiori, presidente comitato delle Associazioni dei pazienti endocrini (Cape). “I pazienti presentano bisogni di contatto, relazione e dialogo anche nelle situazioni più compromesse e i curanti, sotto il pesante carico lavorativo imposto dalla pandemia, non sempre hanno avuto le risorse e il tempo per rispondere a questi bisogni e indubbiamente, le cure hanno subito un rallentamento”.

“Nel contempo – aggiunge – le liste di attesa si sono notevolmente allungate a causa del carico di lavoro delle strutture ospedaliere. L’attenzione a tutte le patologie, in particolare a quelle oncologiche, deve tornare al centro dell’agenda di Governo – ammonisce Biancifiori – dal momento che gli ultimi dati paventano il rischio che nei prossimi anni la mortalità dei pazienti colpiti da tumore aumenti del 20% circa in conseguenza della pandemia”.

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