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I was a Sari: un modello italiano d’impresa sostenibile e inclusiva

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Quando la moda incontra l’arte del riciclo e i diritti delle donne indiane

 “Il primo passo [di ogni economia] dev’essere quello di accendere l’interruttore della creatività di ogni persona”, sostiene MUHAMMAD YUNUS, Premio Nobel per la Pace 2006, padre del microcredito moderno. Ed è proprio ispirandosi al concetto d’impresa sociale, capace di coniugare economia e inclusione lavorativa di fasce deboli, che Stefano Funari ha fondato nel 2011 I was a Sari.

Da top manager in area media in Svizzera a imprenditore sociale in India, a fianco di donne e bambini degli slum, il percorso è stato intenso, sfidante, ma ricco di soddisfazioni.
Com’è stato possibile collegare moda, riuso ed emancipazione femminile?
Un giorno, a Mumbai, durante un’accaldata mattina di mercato, in una bottega nella quale si vendevano rotoli di vecchi sari l’esperienza dirigenziale ha incontrato l’idea originale: l’“upcycle”, il recupero della seta dei sari usati per trasformarli in accessori moda e nuovi capi d’abbigliamento. Solo dopo – trasferendosi in India e approfondendone la cultura – Stefano ha scoperto che tale pratica era già presente nella tradizione indiana, ma nessuno aveva mai pensato prima che proprio da ciò che era considerato scarto avrebbe potuto generarsi lavoro, formazione artigianale di alto livello, economia circolare e dignità delle persone di una comunità.

Nel 2012 si attiva la collaborazione con il Fashion in Progress Collective (FIP Collective) del Politecnico di Milano, un gruppo di ricerca multidisciplinare tutto al femminile anch’esso del Dipartimento di Design, che promuove l’evoluzione positiva e sostenibile del mondo del fashion e delle industrie creative. Vengono studiati nome del brand, logo e nel 2013 viene disegnata e realizzata la prima linea di prodotti.

Bellezza, qualità e accessibilità dei prezzi incontrano riscatto sociale e competenza artigianale, perché per formare chi non ha mai lavorato richiede tempi lunghi e una buona dose di rischio, che le regole del mercato globale sono pronte ad ignorare.
Ma la “via del Sari” si è ramificata e da un laboratorio si è passati a cinque, nei quartieri della popolosa città, da risanare attraverso la seta e l’impegno quotidiano. Anche la linea di prodotto è cresciuta e si è diversificata, sino ad arrivare ad avere preziosi incarti di piccoli fazzoletti di seta per le bomboniere. Un packaging non certo comune, ma sicuramente ecologico.

Per arrivare sino ad oggi, alle collaborazioni importanti con Oxfam Italia (che importa e distribuisce i prodotti attraverso il canale fair trade italiano) e Altro Mercato, sino a quella con Gucci, con il progetto “Now I can”. Nasce dalla scelta del marchio di lusso e della sua piattaforma Gucci Equilibrium di sostenere I was a Sari. Attraverso la sua catena di fornitura di case da ricamo nella capitale commerciale indiana, la maison di lusso ha scelto di far insegnare l’affascinante arte del ricamo a mano dei karigari alle donne, divenute preziose e – di certo – ricercate artigiane.

“Ero un Sari” e “Ora posso” racchiude, come in un cerchio perfetto, tutto il senso di un sogno diventato opportunità concreta di un’impresa dall’anima green e sociale.

 

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